domenica 11 dicembre 2011

Se l'equità è solo una parola

di Daniele Ceschin

Governo necessario, manovra necessaria, equità sociale necessaria ma non pervenuta. Almeno è quanto emerge dalla lettura del decreto “Salva-Italia” che contiene più ombre che luci. Non tanto per le dimensioni e i numeri complessivi, ma per la ripartizione dei carichi fiscali. Se gli italiani avessero un euro per ogni volta che negli ultimi giorni è stata pronunciata o scritta la parola “equità”, non ci sarebbe bisogno di alcuna manovra. È normale che ora si vedano (e si sentano) solo le tasse, ma nei fatti il provvedimento tocca chi ha già dato di più e le categorie sociali per natura fedeli al fisco. E i buoni propositi di miglioramento si scontrano da un lato con i veti di una parte della vecchia maggioranza sorda ad esempio a qualsiasi ipotesi di patrimoniale, dall’altro con la difficoltà di spostare in poco tempo gli oneri verso le sacche di privilegio che ancora (r)esistono. Anche in prima battuta si poteva presentare un testo maggiormente equilibrato. Sarà per questo che non mi sono commosso nemmeno un po’ di fronte alle lacrime della ministra Fornero. L’equità infatti si poteva declinare fin da subito in molti modi senza tanti piagnistei: garantendo l’indicizzazione delle pensioni fino a 1.400 euro, aumentando le detrazioni e le esenzioni per l’Ici-Imu, ammorbidendo le addizionali Irpef che scatteranno da gennaio, mettendo all’asta le frequenze televisive del digitale terrestre. Su questo punto c’è il veto di Berlusconi? Lo si dica pubblicamente senza tanti giri di parole. Cadrebbe il governo? Impossibile, è praticamente blindato. Mentre il ministro Passera approfondisce il tema, qualche osservazione a volo d’uccello.
Ciò che non è equo, non per forza è iniquo ma vi si avvicina molto. Come ad esempio l’esenzione dall’Ici-Imu per gli immobili di proprietà ecclesiastica “che non hanno esclusivamente natura commerciale”. Siamo in quella zona grigia che consente a edifici parzialmente adibiti anche ad opere benefiche di non pagare il dovuto per l’intero complesso, anche se si tratta di un albergo a cinque stelle o una clinica privata. Non occorre essere anticlericali per osservare quanto iniquo sia questo privilegio. Che tra l’altro viola la normativa europea e una sentenza della Corte di cassazione del 2010. Messa alle strette la Chiesa è stata costretta ad aprire uno spiraglio di trattativa. Come mai questo cambiamento di rotta? Perché a fronte di qualche “ateo devoto” pauroso di perdere voti al prossimo giro, esistono in questo Paese milioni di “cattolici adulti” che chiedono equità in primo luogo anche nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Milioni di cattolici che sono lavoratori e pensionati, precari e disoccupati, persone e famiglie che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo, Ici-Imu sulla prima casa compresa, una patrimoniale su un bene primario.
Lotta all’evasione fiscale. Qui la manovra appare timidissima. Ritassare i capitali scudati nel 2009 con un prelievo straordinario solamente dell’1,5% costituisce una beffa. A prescindere dal fatto che si tratta di un’operazione tecnicamente complicata, ci sono pure dei legittimi dubbi normativi: il patto tra lo Stato e gli evasori, anche se scellerato, verrebbe violato con il pericolo di ricorsi. Il peccato originale sta ovviamente nella volontà di Tremonti di tassare quei capitali solo del 5% e di garantire l’anonimato delle dichiarazioni di emersione. Ma nemmeno di una convenzione con la Svizzera per stanare chi ha “delocalizzato” i suoi conti c’è ancora traccia. A fronte del patteggiamento offerto dalle banche elvetiche anche all’Italia, arriva ora lo stop dell’Unione Europea che minaccia sanzioni. Berlino e Londra non hanno perso tempo, ma a Roma, come si sa, si è preferito discutere. Peccato, sarebbero non solo bei soldi, ma tanti, benedetti e subito. Infine la tracciabilità con una soglia di 1.000 euro è troppo alta: andrebbe almeno dimezzata perché l’uso del contante favorisce l’evasione, anche quella spicciola, e il riciclaggio.
Costi della politica. La trasformazione delle Province in enti di secondo livello è un obiettivo che più volte io stesso ho auspicato. Ma esiste un problema di metodo che non va sottovalutato, pena la vanificazione di questa ottima intenzione: l’azzeramento di giunte e consigli provinciali non può avvenire in maniera maldestra. Duole dirlo, ma il minacciato ricorso alla Consulta – che maschera in realtà un istinto di conservazione di questi enti pressoché inutili – sarebbe giustificato. Va bene che in questi ultimi anni la Costituzione è stata più volte piegata ad uso e consumo di Berlusconi, ma questo non autorizza nessuno a continuare su questa strada e a creare qualche precedente pericoloso. Meglio dunque seguire una strada costituzionalmente corretta. Anche se qualcosa mi dice che per la riforma delle Province dovremo attendere ancora parecchio, perché come nel caso degli interventi sui vitalizi e ora sulle indennità dei parlamentari, questi tecnici hanno a che fare con delle volpi patentate che si sono abilmente spartite i compiti per assediare il pollaio: alcune chiedono pubblicamente più equità per tutti, altre ricorrono all’ultimo cavillo per conservare qualche privilegio iniquo.
Ultima nota. Visto che l’opposizione politica, quella dei partiti, sarà poca cosa e di fatto minoritaria, è bene che vi sia almeno un’opposizione sociale in grado di dare voce al dissenso che è molto diffuso e che è inversamente proporzionale al consenso che questa manovra avrà in Parlamento. Il sindacato non si limita dunque a fare un gioco delle parti, ma è un attore fondamentale per ricordarci una volta di più che non esiste alcuna democrazia senza equità.

"la Tribuna", 11 dicembre 2011

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