mercoledì 24 ottobre 2012

Gli effetti recessivi della legge di stabilità: mutui e TFR

da: Pubblico | Domenico Moro


Il Presidente Monti, pur ammettendo che le misure contenute nella Legge di stabilità sono brutali, sostiene che sulla lunga distanza permetteranno la crescita. A boutade del genere Keynes rispondeva che: “Nel lungo periodo saremo tutti morti”. Ci limiteremo ad osservare che, in netta contraddizione con gli sbandierati principi liberisti, il governo opera contro il mercato, minando le basi strutturali della domanda, e con esse la possibilità di una ripresa. Ne è uno degli esempi migliori il settore delle costruzioni, sia pubbliche che private. Le costruzioni pubbliche subiscono da anni il drastico calo della spesa in infrastrutture che, data la stretta al bilancio pubblico in corso, non si invertirà. Tuttavia, il governo ha pensato di beneficiare i soli grandi gruppi prevedendo una defiscalizzazione del 50% per le imprese che si impegneranno in progetti infrastrutturali oltre i 500 milioni.

Il settore privato, basato sull’edilizia per abitazioni, verrà duramente colpito dalle nuove norme su deduzioni e detrazioni fiscali, in particolare dall’innalzamento della franchigia a 250 euro e soprattutto dall’abbassamento del tetto massimo delle riduzioni a 3mila euro totali. Ad essere colpiti da queste novità saranno tutti quelli che chiedono mutui per l’acquisto della casa e che fino ad ora potevano scaricare dalla dichiarazione dei redditi il 19% della spesa per interessi fino a 4mila euro. Con la riduzione del tetto, il risparmio calerà da un massimo di 722 euro ad un massimo di 570 euro. Ma il punto principale non è questo. Se ipotizziamo, alle attuali condizioni di mercato, un mutuo medio di 130mila euro della durata di 20 anni con un tasso fisso al 5,5%, il contribuente in questione si troverà ad esaurire il plafond di 3mila euro per ben 15 anni, cioè negli anni nei quali la spesa per interessi è maggiore di 3mila euro. Durante tutto questo periodo, quindi, il contribuente non potrà portare in detrazione niente altro, né le spese assicurative, né gli studi del figlio fuorisede, né lo sport per i bambini e così via. Se consideriamo che a tutto questo si aggiunge la reintroduzione dell’Imu sulla prima casa e le rivalutazioni catastali, possiamo facilmente dedurne che oggi intraprendere l’acquisto di una casa è diventato più difficile per i bassi e i medi redditi. Infatti, chi è più ricco può permettersi di acquistare una casa in contanti. Oggi, a pagare interessi su di un mutuo sono 3,8 milioni di italiani, dei quali ben l’85% verrà colpito dalle nuove regole perché dichiara un reddito superiore a 15mila euro. La conseguenza sarà una riduzione nella richiesta dei mutui e quindi degli acquisti di case. Molte famiglie e giovani lavoratori, che non scelgono di rimanere nella casa dei genitori, si rivolgeranno al mercato delle case in affitto che specie nelle grandi città presenta prezzi già molto superiori a quelli degli altri Paesi, incidendo mediamente sul 40% del reddito. In Italia il 70%  delle case è in proprietà, mentre in Francia lo è solo il 55% e in Germania il 43%. Al contrario, l’affitto sociale in Italia è del solo 6% contro una media europea del 15%. Secondo il Credit Suisse, in Italia la ricchezza media per adulto, 260mila euro (2011), non solo è al quarto posto nell’eurozona e superiore a quella della Germania, 200mila euro, ma è anche la meno concentrata (il 61% degli adulti dispone di almeno 100mila euro contro il 41,1% della Germania). Se andiamo a vederne la composizione, però, ci accorgiamo che, in proporzione maggiore che negli altri paesi, è di natura non finanziaria, essendo soprattutto relativa alla casa di proprietà. Dunque, si rischia di arrestare la tendenza storica italiana a investire nella casa di proprietà, già rallentata a causa della diminuzione del potere d’acquisto e della conseguente contrazione del tasso di risparmio. Molte famiglie di lavoratori che avevano potuto contare per cinquanta anni sull’investimento nel mattone per far fronte alle difficoltà del ciclo economico si troveranno senza questo ammortizzatore sociale, senza contare il possibile deprezzamento delle proprietà a causa del calo della domanda. Minando le basi strutturali della domanda delle famiglie, la legge di stabilità apporterà così un ulteriore colpo all’industria delle costruzioni, che già affronta un continuo calo dallo scoppio della crisi, a causa del’aumento dei tassi di interesse e della contrazione del credito delle banche, le quali preferiscono investire la liquidità a basso costo ricevuta dalla Bce nel debito pubblico ad alti interessi. Secondo l’Istat, nel 2009 si è avuto un calo nel settore delle costruzioni del -11,6%, nel 2010 del -3,6%, nel 2011 del -2,9%, mentre tra gennaio e agosto 2012 il calo è accelerato a -12,8%. Il solo settore delle nuove abitazioni è crollato tra 2008 e 2012 del 44,4%. Come dimostra la storia, il settore delle costruzioni è stato spesso il volano della crescita economica e gli effetti di un calo ulteriore in questo settore sul Pil sono maggiori di quelli di qualunque altro settore. Questo perché le costruzioni e l’edilizia a scopo abitativo in particolare sono un volano per le industrie, tutte tipiche del made in Italy, delle macchine costruttrici, del mobile, degli elettrodomestici, dell’arredamento, ecc. Un altro esempio di effetto negativo della legge di stabilità è il Tfr. I lavoratori che lasceranno il lavoro a partire dal 31 dicembre 2012 subiranno un maggiore prelievo fiscale, a causa dell’abolizione della clausola di salvaguardia che bloccava l’effetto negativo delle nuove aliquote e scaglioni in vigore dal 2007. Il vantaggio maggiore era per i redditi più bassi, perché fino al 2006 i redditi tra 15mila e 26mila euro erano sottoposti ad una aliquota del 23%. Con la legge di stabilità si farà riferimento alla aliquota vigente nell’anno in cui matura il diritto, che dal 2013 sarà sui redditi tra 15mila e 28mila euro del 26%. Ad esempio, un Tfr maturato in 10 anni di lavoro e di importo pari a 30mila euro pagherà una imposta di 8.100 euro che sarebbe stata di 7.857 euro. La penalizzazione è ancora più rilevante se, come spesso succede, il lavoratore percepisce altre somme alla fine del rapporto. Particolarmente odioso è il caso dell’incentivo alla mobilità, in cui lo Stato tassa quello che è praticamente un sussidio alla disoccupazione. A trarre vantaggi sono solo due categorie: i gruppi che beneficiano di monopoli artificiali e naturali, potendo mantenere alti i prezzi, e le grandi imprese, che sono in genere esportatrici. Per il Paese nel suo complesso rimane la certezza di una regressione storica.

mercoledì 17 ottobre 2012

Convocazione Consiglio Comunale: 23 ottobre 2012

CONSIGLIO COMUNALE del 23.10.2012


E' stato convocato in seduta ordinaria pubblica di prima convocazione il Consiglio Comunale per il giorno:

Martedì 23 ottobre 2012 - ore 17.00

presso la Sede Municipale, per la trattazione del seguente ordine del giorno: 


  1. Approvazione verbali della seduta del Consiglio comunale del 31.07.2012 dal n. 27 al n. 29
  2. Regolamento comunale di Contabilità: modifica.
  3. Servizio di tesoreria periodo 1.1.2013 - 31.12.2017: approvazione convenzione 

lunedì 15 ottobre 2012

Crollo del potere d'acquisto e degli investimenti

da: Pubblico | Domenico Moro


I comunicati diffusi ieri dall’Istat ci rivelano che a pagare di più per le politiche restrittive del governo sono state le famiglie consumatrici, il cui potere d’acquisto è sceso del 4,1% nel secondo trimestre del 2012 rispetto al 2011, e dell’1,6% rispetto al trimestre precedente. Nei primi sei mesi del 2012 il calo è stato del 3,5%. Si tratta del peggiore semestre degli ultimi dodici anni. In valore assoluto il potere d’acquisto delle famiglie nel secondo trimestre 2012 è stato di 224,87 miliardi di euro. Per trovare un valore inferiore bisogna risalire al primo trimestre del 2000 con 219,69 miliardi. A peggiorare sono anche le imprese, sebbene in misura inferiore alle famiglie e considerando che i dati non includono le imprese finanziarie, beneficiate dagli investimenti sul debito pubblico. La quota di profitto sul valore aggiunto (38,5%) delle imprese è calata nel secondo trimestre dello 0,4% rispetto al trimestre precedente, e del 2,1% rispetto al 2011.


È da notare che, nei primi sei mesi del 2012 rispetto al 2011, la flessione degli investimenti fissi lordi delle imprese (-8%) è stata maggiore di quella del risultato lordo di gestione (-6,7%) e del valore aggiunto (-2,6%). Quanto osservato fino a qui, ha una corrispondenza con l’andamento dei conti nazionali, che registrano nel secondo trimestre 2012 un calo del Pil del -2,6% rispetto al 2011. Ci accorgiamo, infatti, che la flessione è dovuta in gran parte proprio al calo dei consumi nazionali (-3%), che, però, è da riferirsi soprattutto al calo degli investimenti fissi lordi (-9%), della spesa delle famiglie (-3,7%), e molto meno a quello della spesa della P.a. (-0,9%). Anche il miglioramento della bilancia commerciale italiana si collega soprattutto al crollo delle importazioni (-8% nel secondo trimestre), dovuto al più generale crollo del mercato domestico, e meno al leggero aumento delle esportazioni (+1,3%). Si potrebbe comunque osservare che il governo nel secondo trimestre è riuscito a raggiungere un saldo primario, cioè al netto della spesa degli interessi, di 12,75 miliardi. Il punto è che questo “risultato” è dovuto soprattutto all’aumento della pressione fiscale. Questa, però, si è scaricata soprattutto sulle famiglie dei salariati, mediante il maggiore peso delle imposte indirette, Iva e accise varie, che pesano proporzionalmente di più su chi è più povero. Tra secondo trimestre 2011 e 2012, mentre le imposte dirette sono passate dai 55 ai 56,69 miliardi (+1,5%), quelle indirette hanno superato le prime, passando dai 54,41 ai 57,99 miliardi (+6,6%). Il governo, da una parte, con l’aumento delle imposte indirette ha accentuato le dinamiche inflative, determinando la perdita di potere d’acquisto, e, dall’altra parte, nel primo semestre ha diminuito le uscite in conto capitale (tra cui gli investimenti) del 14,7%. Il combinato disposto di questi due fattori ha depresso domanda e investimenti interni, trascinando il Pil in basso. Visto che l’economia italiane non può reggersi soltanto sui mercati esteri, spesso anch’essi in difficoltà, queste scelte hanno aggravato la crisi, che, a causa del crollo degli investimenti, rischia di lasciare dietro di sé un apparato industriale fortemente ridimensionato.